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Annarita Gentile “Esperienze educative con bambini disabili visivi: un futuro migliore è possibile”

Durante le sessioni di ieri si è discusso dell’inclusione scolastica dal punto di vista della normativa e della consuetudine organizzativa nella scuola. Io vorrei analizzarla dal punto di vista pratico dell’educatore tiflologico domiciliare, cercando poi di immaginare in che modo il suo intervento possa concorrere al processo di inclusione scolastica.

L’inclusione scolastica è sempre problematica perché risulta dalla combinazione della generalità degli obiettivi formativi, con annesse le problematiche della metodologia, della didattica, dei protocolli procedurali e tutto ciò che ne deriva, con il microcosmo che ogni alunno rappresenta, con l’unicità della persona.

L’equilibrio che deriva da questo connubio quando c’è una disabilità diventa precario, perché aumentano gli elementi della specificità dell’alunno e non si può non tenerne conto se si vuole raggiungere un risultato soddisfacente.

Nello specifico l’inclusione scolastica dei nonvedenti e degli ipovedenti è una questione difficile già dall’origine, quando nel ’76, la scuola comune ha cominciato ad accogliere gli alunni disabili visivi. La famosa legge 360 del 1976, concedeva ai bambini ciechi di non traumatizzare la propria vita affettiva, allontanandosi dalla famiglia; tuttavia con quella legge la garanzia di ricevere un’educazione adeguata alle necessità della disabilità visiva è divenuta un po’ più incerta. Veniva a crearsi un vuoto tiflologico che non può colmarsi con il solo affiancamento a scuola dell’insegnante di sostegno, per tutti i motivi che già nelle sessioni di ieri sono stati discussi. Si è pensato che la figura dell’educatore tiflologico domiciliare potesse colmare quel vuoto tiflologico

L’educatore dovrebbe, secondo l’etimo stesso del suo nome, “trarre fuori” dal bambino cieco o ipovedente tutte le abilità, le capacità, le competenze che gli permettano di “fare da sé”, di essere attivo e propositivo, di partecipare e di contribuire alla vita della collettività. L’educatore tiflologico attraverso un processo maieutico interviene mediando al bambino strategie e tecniche specifiche laddove la minorazione visiva ostacoli la sua partecipazione all’attività da svolgere. L’educatore tiflologico lavora per sostenere il processo di crescita e di emancipazione del bambino con disabilità visiva, che al pari dei compagni vedenti, giorno dopo giorno, costruisce la propria autonomia.

Se l’educatore tiflologico deve fare quanto detto, il suo ambito di intervento è vasto, perché la sua mediazione tiflologica di natura strumentale (quindi connessa all’uso degli ausili e dei sussidi) e soprattutto di natura cognitiva, si applica a tutti i contesti in cui il bambino si trova ad operare durante la giornata.

Il bambino avrà sicuramente una sua vita a casa, per cui deve imparare a gestire gli spazi domestici, praticherà si spera, uno sport, frequenterà luoghi di aggregazione sociale come l’oratorio, il parco giochi, la ludoteca ecc., ed ovviamente frequenterà la scuola, che per quanto importante, è uno degli ambiti in cui il bambino vive.

Dall’ esperienza quotidiana con bambini e ragazzi del nostro territorio, risulta evidente una corrispondenza sicuramente non casuale tra le situazioni in cui l’inclusione scolastica del bambino è più compromessa e difficile, e le situazioni in cui il percorso educativo tiflologico si identifica poco o affatto con una visione olistica della persona, che la consideri nel suo insieme. Sono i casi in cui l’alunno ha preso il posto del bambino anche a casa, al parco giochi, in piscina.

Io credo che l’approccio semplicisticamente “scolastico” al bambino sia pericoloso per la sua formazione e per la sua integrazione sociale perché presuppone che il bambino possa formarsi come persona capace di propri pensieri ed azioni attraverso la sola acquisizione dei contenuti scolastici, delle nozioni proposte dalle diverse discipline. Il modello di formazione scolastica non può essere totalmente sovrapposto al progetto educativo tiflologico disegnato per ciascun specifico bambino.

In realtà non è “l’alunno” che contiene il “bambino” ed assolve alle sue esigenze; è il “bambino” che deve imparare anche a “fare l’alunno”. E lo impara grazie alla trasversalità e trasferibilità delle competenze che sviluppa anche con le attività programmate e mediate dall’educatore tiflologico il quale deve proporre una pluralità di opportune esperienze prattognosiche o come si dice oggi di problem solving, deve proporre una varietà di esperienze ludiche e sociali per preparare il bambino alla partecipazione a scuola.

A tal proposito cito lo stesso Romagnoli che affermava in un suo articolo: “non è possibile stabilire facoltà psichiche a sé stanti, separate a compartimenti stagni che vivano l’una indipendentemente dall’altra, che si sviluppino secondo un proprio dinamismo, ma invece debbano essere considerate tutte come aspetti salienti e particolari di una totalità psichica che è lo stesso individuo, che si riferisce alla medesima persona”.

Un esempio chiarirà il concetto: il bambino che deve imparare a svolgere le equivalenze tra grammo e chilogrammo, prima ancora dell’algoritmo operativo algebrico, prima ancora di aver compreso che lo stesso peso si può esprimere con numeri diversi, deve aver fatto esperienza che gli oggetti sono caratterizzati anche dal peso, che questo può essere di entità differente a seconda che si parli di una saponetta, di un libro, del punteruolo con cui scrive piuttosto che di una persona; deve cioè aver fatto esperienza del peso per poterlo afferrare come concetto astratto sul quale ragionare ed operare con i numeri. Altrimenti l’equivalenza resterà un meccanico e vuoto esercizio di calcolo disgiunto da un dato percettivo significativo per il bambino non vedente, che invece se avrà “giocato” con il peso degli oggetti, intenderà perfettamente di cosa si parla a scuola il giorno in cui la maestra spiegherà l’argomento alla classe. Sarà così, integrato all’attività della classe.

Allora la mediazione dell’educatore tiflologico è ben lontana dall’essere un doposcuola, un aiuto a eseguire i compiti a casa, purché ci sia qualcosa sul quaderno che dimostri che si è studiato come tutti gli altri: è piuttosto un “prescuola”, nel senso di una mediazione volta a costruire i prerequisiti che permettano al bambino di partecipare alla vita scolastica, ed esserne incluso. Per questo motivo è quanto mai opportuno che l’educatore conosca la programmazione didattica della classe, così come dovrebbe conoscere anche gli aspetti e le problematicità degli altri contesti di vita in cui il bambino opera.

Tanto più il bambino sarà capace di muoversi, orientarsi, elaborare con finalità e criterio le informazioni che saprà reperire attraverso gli altri canali sensoriali, tanto più sarà integrato nella scuola, sarà in grado di seguire la programmazione della classe, utilizzando i propri sussidi, adottando le opportune strategie, interagendo da pari con i compagni.

Ancora un esempio: il bambino che sia stato educato adeguatamente all’esplorazione aptica, sarà in grado di riconoscere, confrontare e distinguere un’arancia da una mela, un bicchiere da una tazzina, come un quadrato da un rettangolo, evitando che la definizione del luogo geometrico imparato a scuola resti un mero verbalismo, fermo alla figura di cartoncino che qualcun altro avrà incollato sul suo foglio di carta Braille e sul quale il bambino passa la mano.

Quotidianamente lavoriamo con ragazzini con disabilità visiva che hanno difficoltà scolastiche perché il loro bagaglio di esperienze attive è incompleto, magari non solo perché abbiano fatto poche esperienze, ma perché non è stato mediato loro l’aspetto significativo per farne tesoro, cioè per poter generalizzare quell’esperienza rendendola utile per la decodifica di altre esperienze analoghe. Non è avvenuta la mediazione che faciliti il passaggio dall’esperienza alla formazione del concetto.

L’ambito della scuola fa emergere questa lacuna: il bambino normodotato che non comprende il paragrafo di storia che le sue dita stanno leggendo è probabilmente un bambino che presenta uno spaventoso verbalismo concettuale, cioè un uso di interi concetti, non solo di parole, non rappresentati mentalmente da nulla; questo obiettivamente difficilmente può essere recuperato durante la lezione a scuola, considerando i tempi ristretti e la necessità della programmazione della classe, ma che può essere prevenuto se l’educatore tiflologico, non si limita ad addestrare il suo bambino all’uso degli ausili, ma gli offre un adeguato aggancio percettivo ai concetti che intende fargli acquisire, interiorizzare e generalizzare, e cerca riscontri attraverso la verifica puntuale delle funzioni immaginative associate a quel concetto.

Ormai è condiviso che il processo di costruzione del concetto generale, anche per il bambino vedente si forma partendo da “un’attività totale”, come la definiva Maria Montessori che affermava nel 1936 “Il materiale dato come mezzo di studio, la materializzazione delle astrazioni nella matematica, il poter maneggiare, pensando, qualche cosa che rappresenta la cosa pensata ed accompagna il ragionamento, rappresenta una tecnica pratica di vera igiene mentale. Si comprende che il materiale sotto forma di “materializzazione” delle astrazioni, o di “concretizzazione” di idee, rappresenta una preparazione pedagogica speciale”.

Io credo che questo modo di procedere nella prassi educativa sia valida per tutti i bambini; per i bambini con minorazione visiva è assolutamente indispensabile. L’intervento dell’educatore tiflologico non può prescindere da questo assunto.

Ancora un esempio: quanti bambini osserviamo capaci di eseguire correttamente l’algoritmo delle operazioni in colonna con la dattiloritmica o il cubaritmo, ma che hanno grandi difficoltà a individuare qual è l’operazione da svolgere per risolvere un problemino di matematica!

Si deve riconoscere che l’intervento dell’educatore tiflologico domiciliare non è sempre semplice anche per motivi estrinseci alla figura professionale. È doveroso riconoscere che la sua azione è in qualche modo ostacolata dalla precarietà delle attività domiciliari, non sempre continue a causa delle difficoltà di bilancio che le amministrazioni locali incontrano; questo rende difficile una programmazione scorrevole dell’intervento, spesso limitato ai soli mesi di scuola. È doveroso riconoscere anche che lavorando in casa, l’educatore tiflologico, è spesso sottoposto alle richieste dei genitori che necessitano di aiuto per fronteggiare le esigenze dello studio a casa; del resto è comprensibile che per loro un profitto scolastico soddisfacente rappresenti un feedback rassicurante rispetto all’integrità delle capacità psichiche del proprio bambino.

Io credo che per apportare un miglioramento, ognuno debba concentrarsi su ciò che può modificare; l’educatore certo non può risolvere i problemi di bilancio delle amministrazioni locali, né possiede gli strumenti dello psicologo che permettano ai genitori di convivere serenamente con la disabilità del figlio. Certamente la professionalità dell’educatore tiflologico si palesa nel ricordare sempre che l’obiettivo del proprio lavoro è portare il bambino a poter fare a meno del sostegno dell’educatore stesso; più che aiutare il ragazzino a fare i compiti, dovrà insegnargli come poterli fare da solo! Il suo lavoro consiste nella costruzione di prerequisiti operativi (relativi quindi alla gestione degli spazi e degli oggetti) e concettuali (relativi alla capacità di autodeterminarsi) che rendano il ragazzo autonomo ed attivo; solo così potrà essere integrato ed incluso in tutti i contesti in cui opera, compreso quello scolastico.

In conclusione: in che modo l’educatore tiflologico può contribuire ad un futuro migliore possibile per l’inclusione scolastica dei nostri ragazzini?

Io credo riappropiandosi del suo ruolo di mediatore rispetto alla disabilità visiva, disegnando un programma educativo che, lungi dall’ansioso inseguimento dell’alunno, sia incentrato sul bambino nella sua globalità, proiettandolo verso l’adulto autonomo che si vuole emancipare.